I cancelli di Moria

Quando la Compagnia arriva ai Cancelli di Moria, non importa quante volte si sia letta o vista la scena: sarà sempre un tumulto di emozioni. Da quel momento in poi comincia la parte del viaggio che più di ogni altra segnerà profondamente tutto il resto dell’avventura dei Nove Viandanti. Non appare casuale, quindi, che questa sorta di “iniziazione” abbia luogo varcando una soglia sormontata da un’iscrizione in Sindarin, la lingua legata alla sapienza più antica e misteriosa della Terza Era, quella con cui gli enigmatici Elfi tramandavano sapienza e potere da ormai molti millenni.

Il varco occidentale di Moria, ben custodito dalle Porte di Durin, è rinomato e alla fine della Terza Era ha già una lunga e prestigiosa storia alle spalle, che forse non tutti sanno. Siccome si tratta di un’opera grandiosa, oltre che celebre e suggestiva, vogliamo far luce sui suoi aspetti salienti a beneficio dei nostri lettori.

Un confine tra Elfi e Nani

Le Porte di Durin, note anche con il nome di Porta Occidentale di Moria o Porta degli Elfi, vennero costruite in un tratto delle Mura di Moria che costeggiava le scure pendici del monte Dentargento a realizzare un ingresso a ovest per la grande città nanica di Khazad-dûm. Durante la Seconda Era si giunse alla decisione di aprire una via da quel lato per facilitare i contatti e i commerci con gli Eldar che popolavano l’attiguo regno dell’Eregion. La Porta degli Elfi venne così realizzata per mezzo di un raro e irripetibile esempio di cooperazione tra Nani ed Elfi: costruite tra il 750 e il 1500 della Seconda Era, fondendo in un unico manufatto le eccellenze artigiane elfiche e nanesche, fu a lungo il simbolo del periodo di pace che precedette l’ascesa di Sauron a nuovo Nero Nemico. Furono i due più rinomati artieri di quel tempo a compiere l’opera, il signore elfico dell’Eregion Celebrimbor e il nano Narvi, nei giorni che precedettero gli Anni Oscuri in cui Sauron instaurò il suo dominio di tenebra nella Terra di Mezzo. Anche in quel frangente pacifico però  l’amicizia tra regni degli Elfi e dei Nani era un evento raro e speciale, ma durante quel lasso di tempo le porte erano aperte e i commerci tra Agrifogliere e Nanosterro si svolgevano con regolarità e senza restrizioni. In seguito alle guerre che si scatenarono a partire dalla seconda metà della Seconda Era, però, dapprima le porte furono sigillate; quando poi Khazad-dûm fu abbandonata, poco più di un millennio prima di essere riaperte dalla Compagnia dell’Anello, il segreto che permetteva di aprirle andò dimenticato.

Esse erano state modellate come porte a filo, gli stipiti invisibili all’occhio, quindi abbinate in modo da combaciare  perfettamente con la roccia della montagna facendo sì che, quando chiuse, le porte non potevano essere scorte nemmeno dall’acuta vista di un Elfo. Le lastre erano state costruite da Narvi in un materiale grigio più duro della stessa roccia, in cui Celebrimbor aveva realizzato gli intarsi in ithildin, portentoso metallo che potrebbe essere visto solo quando fosse stato illuminato dalla luce delle stelle e della luna. Quando ciò accadeva e gli splendidi intarsi argentei si rivelavano nella loro luminescente magnificenza, si potevano scorgere un martello e un’incudine quali emblemi di Durin, una corona e Sette Stelle che con ogni probabilità simboleggiavano la corona dello stesso Durin, quindi due alberi sormontati ciascuno da tre mezzelune probabilmente a simboleggiare l’Albero degli Alti Elfi , infine una stella solitaria quale emblema della Casa di Fëanor. Agli angoli superiori destro e sinistro erano stati incisi due caratteri tengwar calma per la lettera C e óre per la N, evidentemente come tributo a Celebrimbor e Narvi, mentre in basso campeggiava una ando (D) in riferimento a Durin.

Dall’interno le porte potevano essere aperte semplicemente a spinta. Come riportato nei Racconti Incompiutial tempo in cui Moria era abitata dai Nani vi erano due guardiani di stanza permanente a presidio delle porte, con il compito di vigilare il varco e di agevolare eventualmente l’entrata a chi ne avesse diritto e necessitasse di un aiuto nell’apertura.

L’iscrizione sull’archivolto

La frase che a un tratto s’illumina sui portali di pietra è uno dei campioni in lingua più lunghi in assoluto e mostra molte delle caratteristiche principali del Grigio-elfico, oltre a una serie di particolari eccezioni alle regole sin qui note. I caratteri in cui è vergata risalgono ai Tempi Remoti: infatti il modo di scrittura prende il nome dal Beleriand, la terra abitata dagli Elfi che nella Prima Era combatterono per la salvezza loro e del mondo contro il primo Oscuro Signore. Ma il manufatto è decisamente più recente: .
La prima apparente stranezza sta proprio nel fatto che il cancello del regno dei Naugrim recasse un’iscrizione nell’idioma degli Eldar: ma da quella direzione provenivano in massima parte artigiani e commercianti di stirpe elfica dall’Eregion, che in quei secoli tessevano ripetuti e proficui scambi commerciali con il popolo di Durin, così non deve sorprendere che il messaggio fosse scritto appositamente in elfico.
La frase con cui inizia l’iscrizione, Ennyn Durin aran Moria, significa Le porte di Durin, signore di Moria: La seconda parte è la celeberrima pedo mellon a minno, cuore dell’enigma (e di un equivoco che ancora si trascina, perfino nel testo italiano pubblicato…).

  • Ennyn è la regolare forma plurale di annon porta: il Sindarin ha infatti la peculiarità di formare i suoi plurali in modo diverso a seconda di quale sia la vocale dell’ultima (o unica) sillaba e i sostantivi in o formano il loro plurale tramutandola in y. In questo caso, la a iniziale viene modificata a sua volta per un fenomeno fonetico che prende il nome di metafonesi.
  • Aran significa re o signore. Si noterà che non vi è nessuna particella al posto della preposizione “di”: questo perché il Sindarin può formare frasi genitive semplicemente per giustapposizione, sottintendendo il “di”. Non è l’unico modo per realizzare costrutti simili, ma è un modo lecito e molto usato anche nella non certo abbondante letteratura a nostra disposizione.
  • Pedo e minno sono due verbi all’imperativo , parla ed entra. In Grigio-elfico questo modo verbale è riconoscibile per la tipica –o finale che lo contraddistingue.
  • Mellon è l’ormai arcinoto protagonista della scelta di traduzione che lo ha fatto conoscere a tutta italia come un plurale: in realtà, visto l’esempio precedente di annon, ormai si sarà ben compreso che si tratta invece un tipico singolare (cosa che Vicky Alliata di Villafranca all’epoca non poteva sapere in alcun modo). Si tratta anche della soluzione all’enigma che apre i portali e a questo proposito c’è da dire che a causa di un’altra caratteristica fonologica (cioé dei suoni delle parole) del Sindarin, o meglio della sua assenza, forse qualcosa si sarebbe potuto intuire: più sotto la spiegazione di questa sibillina conclusione intermedia.

La seconda parte dell’iscrizione riporta sostanzialmente i nomi degli artefici di quella splendida opera. Im Narvi hain echant, che significa letteralmente Io, Narvi, le feci, una sorta di marchio apposto dal rinomato artiere di Khazad-Dûm, mentre Celebrimbor o Eregion teithant i thiw hin sta per Celebrimbor dell’Agrifogliere tracciò queste lettere.

  • Hain è il plurale del pronome relativo non altrimenti attestato #han, il cui significato è lo o quello e mostra la regola su come si formano i plurali dei sostantivi in –a– (cosa che si riscontra anche, ad esempio, in edain come plurale regolare di adan), cioè con la trasformazione di quest’ultima in –ai-.
  • Echant è il passato di un verbo echad– che ha accezione fare, dare forma, foggiare e mostra invece uno dei modi in cui si coniuga il passato nei verbi Sindarin: quando il verbo è in terza persona forma il suo passato per mezzo della desinenza –ant, che rimpiazza qualsiasi altra eventuale consonante finale (gran parte dei verbi come questo, i cosiddetti “derivati”, hanno l’ultima sillaba in –a-: per il resto, la formazione del tempo passato Grigio-elfico comprende una serie di casistiche piuttosto lunga e articolata, ma per comprendere l’iscrizione sull’archivolto è sufficiente limitarsi a questo).
  • Teitha– è un verbo che sta per disegnare, tracciare e forma il passato esattamente come nel caso precedente.
  • La parte interessante sta nelle ultime tre parole, che non si trovano come tali su nessun lemmario. Il motivo sta in un’altra regola fonetica del Sindarin: in questi casi si innesca infatti il complesso e affascinante fenomeno delle mutazioni. Le forme basi delle ultime tre parole sarebbero rispettivamente in tîw sin: e sono l’articolo plurale, tîw come plurale di têw lettera e sin come plurale di sen che significa questo, questa. Ora, la –n finale di in, pur venendo omessa per elisione, innesca la cosiddetta mutazione nasale che trasforma la t– in th– (e di ogni consonante iniziale affetta bisogna conoscere ogni forma di mutazione…), mentre la semivocale –w innesca mutazione blanda (detta anche lenizione) nella s– che segue, trasformandola in h-.

Chi è riuscito a seguire ogni passaggio sin qui, il che non è scontato (ma il Sindarin questo è), probabilmente ha ancora un barlume di lucidità per domandarsi come mai non si riscontrino mutazioni in mellon e minno. Se lo chiedono, per la verità, anche tutti gli specialisti di lingue elfiche… Si possono azzardare due spiegazioni: la meno probabile è che in Eregion si parlasse all’epoca un dialetto Sindarin in cui le vocali non innescavano lenizione; la meno improbabile è che, come detto nel post precedente, mellon sia stato lasciato intenzionalmente in forma non lenita come “promemoria” per chi fosse in grado di intendere e che, al contempo, la congiunzione a non innescasse lenizione in senso generale. Nel sistema immaginato da Tolkien le varianti locali del Sindarin erano molte, forse più di quante egli avesse preso direttamente in considerazione, ma di nessuna abbiamo una descrizione grammaticale completa. Il che lascia il campo a una serie sterminata di tentativi di deduzione, almeno fino a quando non saranno (se mai lo saranno!) pubblicate altre note di estremo interesse per il Sindarin, al pari di quelle uscite negli ultimi anni per il Quenya, che hanno colmato diverse lacune nel sistema verbale. Non rimane che attendere e sperare…

Bibliografia

Dove non specificato altrimenti le informazioni sono tratte da Il Signore degli Anelli, a eccezione delle note alla traduzione della frase dell’archivolto che invece sono state diffuse nel numero 17 di Parma Eldalamberon.