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Tolkieniani Italiani – Intervista a Marcantonio Savelli


Recentemente abbiamo avuto modo di entrare in contatto con Marcantonio Savelli e di approfondire la sua conoscenza. Nato a Bologna nel 1986, si è proposto in particolare per il suo esordio come autore letterario con un’opera prima interamente ispirata alla letteratura medievale, a partire dalla trama fino a giungere al metodo compositivo. Abbiamo così potuto constatare che l’autore è anche studioso di filosofia e appassionato ricercatore di storia e letteratura medievale: non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione per una ricca chiacchierata su tutto ciò che ci accomuna.


Da cosa è scaturita l’ispirazione a dedicarsi a un tema e a un’opera tanto affascinante, quanto inusuale nel panorama letterario nazionale?

Ringrazio prima di tutto per il complimento e per questa intervista. Dove è nata l’ispirazione… Fortunato l’autore che sia in grado di rispondere a questa domanda riguardo alla propria opera in modo esauriente. Temo di non poterci nemmeno provare. L’ispirazione diretta credo sia da ricercarsi, tra le altre cose, nelle letterature medievali, in primo luogo l’epica di ogni latitudine, su tutti il Beowulf la Chanson de Roland, i cicli arturiani, le saghe norrene, la Legenda Aurea e altre agiografie, Chretien de Troyes e la lirica trobadorica in generale, Dante. Tra gli antichi, l’Odissea inevitabilmente. Tra i moderni, mi vengono in mente Melville, London, Scott, Borges, Yeats. Tolkien fa storia a se’. Ma se parliamo di ispirazione in senso più lato, devo purtroppo avvertire di aver letto molta filosofia. Pertanto credo che il problema letterario sia per me posto innanzi tutto come problema filosofico. Senza fare nomi. Penso dunque che sia corretto definire Erec un poema filosofico. Si può leggerlo come un poema epico per trarne il piacere che si trae da un testo epico. Tuttavia il mio intento era fare qualcosa di più di questo, ovvero suggerire al lettore una meditazione sull’uomo non antico, ma moderno, o sulla crisi moderna, se si vuole, vista non dal punto di vista della “letteratura di crisi”, ma bensì da quello di un suo superamento. In realtà la distinzione è illusoria, perché l’epica è, per sua natura, spontamentamente simbolica e quindi filosofica. Ad ogni modo, ho tentato di scrivere un libro drammatico ma ottimista, che mediti sul futuro facendo finta di parlare “solo” di un passato immaginario. C’è forse qualcosa di Tolkieniano in questo? 

Qual è stato il ruolo di Tolkien e delle sue opere in questo contesto creativo?

Non esito a dire che questo testo non esisterebbe se un bambino di nove anni non avesse preso in mano Il Signore degli Anelli per non più abbandonarlo. Una storia comune, credo, a molti di coloro che leggeranno queste righe. Da allora ho letto e amato molti altri autori, ma penso di poter dire che Tolkien sia l’influenza maggiore su Savelli come essere umano e come scrittore. A prescindere ovviamente dalla qualità letteraria e artistica, credo che nel mio testo ci sia molto di Tolkien. Ma la ricetta ideale per scrivere un pessimo libro penso sia imitare gli autori che si amano. Non si potrà mai eguagliarli, ma soprattutto si sta imitando l’opera, non la mente e lo spirito che l’hanno creata. Si sta facendo, per dirla con Platone, una copia di una copia. Da Tolkien penso di aver attinto, soprattutto, la convinzione che si possa scrivere un’opera che parli all’uomo moderno del suo destino e della sua felicità senza per questo rassegnarsi alla modernità e alla crisi che essa porta con se’. E l’idea che certi temi, tra cui quello del fantastico inteso come quel qualcosa che sfugge alla logica calcolante, all’organizzazione come dominio… questo e altri temi nati nell’Occidente medievale… possano essere recuperati e riproposti in chiave nuova. 

Come mai la scelta è caduta proprio sul metro allitterativo, che non è certo la tecnica compositiva letteraria più agevole?

Come tutti sappiamo, vi è un rapporto fra forma e contenuto. La forma, in un’opera d’arte, non è un abito che si possa smettere e sostituire a piacere. Non credo sia possibile, per intenderci, scrivere un poema allitterativo a tema non epico,  o che parli del banale, del quotidiano, del triviale. O del moderno. Lo si potrebbe fare, certo, ma credo che il risultato sarebbe piuttosto ridicolo. La letteratura italiana non ha mai conosciuto l’allitterazione perché è molto più difficile comporre secondo tale metro in una lingua “romanza” che in una lingua germanica, come ad esempio l‘old english. Il motivo principale è piuttosto semplice. In old english, nonché nell’inglese moderno che in buona parte ne deriva, la stragrande maggioranza delle parole è accentata sulla prima sillaba. Siccome il metro allitterativo non si interessa di come una parola finisce, (come invece la rima), ma solo del suono delle sillabe dove cadono gli accenti, ecco che per chi compone è molto più facile pensare alle parole che iniziano con il tal suono, che non trovare mentalmente la parola che esprima ciò che vogliamo esprimere e allo stesso tempo che abbia la sillaba su cui cade l’accento corrispondente alle esigenze metriche. All’inizio del testo vi è una spiegazione della metrica utilizzata. Chi lo desidera può cimentarsi e verificare da se’. Ma detto questo, oltre al maggior tempo e alla fatica richiesti a comporre, di cui il lettore non ha motivo di preoccuparsi, oso sperare che i risultati non parlino a sfavore dell’adozione di tale metro anche per opere in lingua italiana. Questo poema epico, come tutti i poemi epici di ogni tempo e luogo, è fatto non per essere letto mentalmente, ma declamato ad alta voce. Ho provato a farlo e mi è parso che il risultato non fosse dei peggiori. Per questo l’ho portato a termine.  

Sono in nuce o in lavorazione eventuali seguiti o altre opere dello stesso filone?

Tutto è possibile, ma credo che una scelta stilistica così “forte”, nel senso di specifica e contenente in se’ un che di programmatico, difficilmente possa dar vita ad un genere. Vi è qualcosa di facilmente esauribile in essa, in primo luogo l’implicita dichiarazione di voler scrivere, nel ventunesimo secolo, un poema allitterativo invece di un romanzo. Tolkien scrisse anche in metro allitterativo, credo unico nel ventesimo secolo, ma potrei sbagliarmi. Gran peccato che quel suo testo sia incompiuto. Tornando alla scelta formale, personalmente non mi vedrei capace, invece, di scrivere un romanzo, forma espressiva, come è noto, ben più recente e “giovane” dell’epica stessa. In questo periodo sto lavorando ad una raccolta di racconti molto brevi. Certo, io stesso, o qualcun altro, potrebbe scrivere altri poemi allitterativi in lingua italiana, magari anche più lunghi o meglio scritti, ma cosa aggiungerebbero al primo? A questa domanda faticherei a trovare risposte convincenti.

Il ciclo della Terra di Mezzo può essere visto anche come una base di conoscenza da cui possono essere tratte altre ispirazioni che invitino a riscoprire e diffondere testi storico – mitologici?

Certamente. L’opera di Tolkien è (anche) il prodotto di una profonda conoscenza del Medioevo occidentale. Se non ricordo male, egli dichiarò di essersi proposto di creare una mitologia per l’Inghilterra, che non ne aveva mai avuta una al pari del mondo greco-latino. Se davvero questo era il suo intento, mio parere è che abbia fallito: egli creò invece, forse senza volerlo, una mitologia per l’Occidente. Più si studia e si conosce il Medioevo e la sua letteratura, più si apprezza Tolkien, e viceversa. Ciò detto, non si intenda che l’operazione di Tolkien sia una mera emulazione antiquaria: sono consapevole che vi è molto di più. Non credo serva ricordarlo. Tuttavia, consiglio agli appassionati di Tolkien che siano alla ricerca di materiale “nuovo” che permetta loro di provare almeno in parte suggestioni simili a quelle prodotte in loro da Tolkien stesso, di considerare la lettura di testi medievali, forse meno noti in Italia che in altri paesi. Naturalmente la lista è nutritissima, ma il primo da menzionare è ovviamente il Beowulf, che è un poema allitterativo. E’ a mio parere il più “tolkieniano” tra tutti i testi antichi, ovviamente non a caso, dato che Tolkien ne era il massimo esperto. Personalmente, pur nutrendo un’ammirazione altissima per Tolkien, non mi definirei un grandissimo fautore del genere “Fantasy” inteso come genere letterario contemporaneo. Il problema è che molti autori, anche di successo, hanno poco da spartire con Tolkien. Si limitano, perlopiù, a replicare i sintomi di un fenomeno, spesso senza averne compreso le qualità profonde. Curioso che a dirlo sia proprio il sottoscritto, autore di un testo che suppongo si possa definire “fantasy”. Ma forse gli intenti che mi muovono sono differenti. Giudicherà il lettore.

A che pubblico si rivolge la sua opera?

Mi piacerebbe dire: a tutti. E’ un testo poetico, e come tale un poco meno scorrevole di uno in prosa. Tuttavia, una delle mie priorità è stato rifuggire il “poetichese”. Scrivere “difficile” è facilissimo. Scrivere “semplice” è molto più difficile. Spero, a tratti, di esserci riuscito. Una delle qualità dell’epica medievale è la sua capacità di ottenere effetti dall’alto valore poetico facendo uso di un linguaggio semplice. A volte perfino, all’apparenza, rozzo. Vi troviamo parole di uso quotidiano preferite a parole auliche o ricercate. Ho cercato di fare tesoro di questo accorgimento. Dopo molti anni di lavoro ho raggiunto il risultato che desideravo. Non riesco a immaginare per la mia opera un pubblico più adatto di coloro che amano profondamente Tolkien, dato che io stesso sono uno di loro. E a tutti coloro che leggeranno l’Erec, consiglierei di farlo ad alta voce, in compagnia, possibilmente di notte, attorno ad un fuoco. 

A beneficio di chi desiderasse reperire il libro di Marcantonio Savelli, riportiamo il link alla pagina web del sito dell’editore – a cui rimandiamo per ulteriori informazioni e per eventuali ordini: https://www.apolloedizioni.it/epages/146609.sf/it_IT/?ObjectPath=/Shops/146609/Products/9788831202015