Tolkieniani Italiani – Intervista a Sebastiano Brocchi

L’attività dei Tolkieniani Italiani sul nostro sito inizia con l’intervista a un amico e autore di narrativa.

Sebastiano B. Brocchi, nato il 18 marzo del 1987, è originario di Montagnola (Svizzera) dove risiede tutt’ora. In terza liceo lascia gli studi per diventare scrittore e ricercatore autodidatta nel campo della storia dell’arte, della filosofia ermetica, della simbologia sacra e dell’alchimia interiore. Nel 2004 ha pubblicato la sua prima opera, il breve trattato “Collina d’Oro – I Tesori dell’Arte”. Negli anni successivi hanno visto la luce “Collina d’Oro Segreta” (2005), libro che ha suscitato scalpore nella cronaca ticinese, e “Riflessioni sulla Grande Opera” (2006), considerato dagli specialisti un testo magistrale di alchimia. É del 2009 il saggio, dedicato all’interpretazione esoterica delle fiabe tradizionali, “Favole Ermetiche”. Nel 2011 dà alle stampe la prima opera di narrativa, il giallo storico “L’Oro di Polia”, mentre nel 2012 prende avvio la saga fantasy dei Pirin con la prima edizione del volume “Le Memorie di Helewen”. Il secondo volume della saga, “Hairam Regina”, viene pubblicato nel 2016. É inoltre autore di numerosi articoli, interviste a importanti personalità internazionali e approfondimenti apparsi su riviste e siti web sia svizzeri che italiani. La sua opera tutta, da Favole Ermetiche a L’oro di Polia, per non parlare della saga di Pirin, sta ricevendo grande riscontro sia da parte del pubblico sia della critica, un riscontro a nostro giudizio meritatissimo. Lo intervista per noi Giovanni Carmine Costabile.

 

Vuoi raccontarci come è nata l’ispirazione per la trilogia, che ricordiamo comprende Le memorie di Helewen, Hairam Regina e Le gesta di Nhalbar, oltre ad alcuni derivati multimediali come il videogame Eselmir e i cinque doni magici?

Sono passati diversi anni, una quindicina almeno. Credo che le prime ispirazioni mi siano venute già sui banchi di scuola, alle medie, e negli anni del liceo iniziavo già a riempire cartelle di schizzi e appunti… penso che l’idea di una “grande saga”, nel senso di un universo corposo che si prestasse a un’espansione narrativa molto ampia e articolata, mi sia venuta dall’amore incondizionato che provai per i film di “Star Wars”. Tuttavia, fu con l’uscita della trilogia cinematografica de “Il Signore degli Anelli” che scoprii l’universo tolkieniano e – sebbene a chiaroscuri – compresi di voler indirizzare la mia saga su quel filone letterario anziché su una space opera. Dicevo “a chiaroscuri” perché sebbene molti elementi tolkieniani mi avessero assolutamente catturato ed entusiasmato, altri aspetti, come penso sia naturale, non li sentivo molto sulle mie corde. Ma al di là di queste “spinte” iniziali derivate in parte dalla cinematografia, devo dire che un’altra mia grande passione già in quegli anni giovanili fosse la storia antica. Avrei tanto voluto emulare (nel mio piccolo, è chiaro) la maestosa eredità dei grandi poemi epici e di altre opere intramontabili prodotte dalle civiltà del passato: opere intrise di una forza magica, che ha sempre esercitato su di me un fascino molto maggiore rispetto alla letteratura  contemporanea.

 

Come già hai avuto modo di sapere questa serie di interviste vuole rintracciare l’eredità di Tolkien negli autori fantasy italiani contemporanei (in lingua italiana, nel tuo caso, essendo svizzero). Perciò ti chiedo direttamente: che ruolo ha avuto Tolkien nella tua scrittura? Come lo hai conosciuto? In che rapporto ti consideri rispetto a colui che da molti è considerato il padre del genere fantasy?

Sicuramente, come in parte già accennato, la principale influenza tolkieniana l’ho ricevuta dalle  recenti trasposizioni cinematografiche. Sono quelle ad avermi fatto avvicinare all’opera del Professore, ma sarò sincero: malgrado la grande ammirazione e il trasporto per l’autore, non ho in seguito approfondito  la sua opera tanto da potermi definire un esperto. Molti pensano che alcuni elementi della saga “Pirin” si rifacciano a Tolkien, e magari quando me lo fanno notare mi trovo nell’imbarazzante situazione di non sapere di cosa stiano parlando: nella maggior parte dei casi, la verità è che Tolkien ed io abbiamo attinto da simili fonti, ma si tratta di fonti ben più antiche. Ho iniziato già da adolescente a divorare letteratura – spesso di origine precristiana o medievale – che spaziasse dalla mitologia ai testi sacri di varie religioni, passando dal folklore alle fiabe e leggende di diversi popoli. Perciò è facile che qualora compaiano elementi comuni tra le mie opere e quelle di Tolkien, più che una derivazione diretta possa trattarsi di una rielaborazione di archetipi, parole, simboli, dei secoli o dei millenni passati. Inoltre, ed è un elemento che purtroppo è emerso fin troppo poco dagli studi tolkieniani, il Professore condivideva una passione che ha dominato anche la mia ricerca personale: l’Alchimia, intesa come scienza della trasformazione interiore dell’individuo. Personalmente ho ritrovato moltissimi elementi della più pura tradizione alchemica ed ermetica nell’opera di Tolkien. Gli esempi non si contano: potrei citare il gonfalone di Gondor (riproposizione dell’albero alchemico con le sue sette stelle), o le fasi narrative ispirate alle fasi della Grande Opera: discesa nelle miniere di Moria (Nigredo) assedio della città bianca di Minas Tirith (Albedo) e raggiungimento del fuoco del Monte Fato (Rubedo). I vari riferimenti al Fuoco Segreto…

Ciò che ho maggiormente apprezzato di Tolkien, oltre alla cura per la lore, allo stile aulico e la profondità quasi “religiosa” o meglio ancora “esoterica”, sono gli elementi anche esteticamente più riusciti, ovvero ad esempio l’eleganza della civiltà elfica, o di alcuni luoghi emblematici come Minas Tirith (alla cui interessante tipologia costruttiva e ai suoi precedenti ho dedicato, tra l’altro, un articolo intitolato “La città concentrica. Archetipo del cosmo e della fortezza interiore”).

Quel che invece ho apprezzato meno in Tolkien – ma devo dire in particolare nella  trasposizione cinematografica – è l’indugio in elementi più grotteschi, come le varie razze di orchi, e il fatto che un mondo potenzialmente così bello si trovi di fatto – all’epoca degli eventi principali – al tramonto e in rovina. Credo che questa sia un’altra grande differenza rispetto alla mia saga “Pirin”, almeno per quanto riguarda le ambientazioni. Gli eventi salienti della trama descritti nel secondo e terzo volume (perché il primo volume costituisce una sorta di retrospettiva, se vogliamo) si svolgono all’epoca del massimo splendore delle civiltà del continente, cioè in un mondo ancora brulicante di vita e iniziativa, monumentale e popoloso, che richiama i fasti degli antichi imperi.

 

Complimenti per la sezione dedicata alla vita e alle usanze dei Pirin. Sembra quasi di leggere uno dei trattati filosofici utopistici sulla città perfetta che abbondano nella tradizione occidentale, dalla Repubblica di Platone alla Città del sole di Tommaso Campanella, per non parlare ovviamente di Utopia di Tommaso Moro. Scorgo anche un influsso sottile del socialismo ottocentesco, se non sbaglio, nella particolare attenzione all’aspetto del lavoro nel regno dei Pirin. Ma ovviamente un altro modello è senz’altro la Contea di Tolkien. A cosa pensavi in realtà? Ho indovinato qualcosa?

Ti ringrazio. Sì, hai azzeccato buona parte dei principali “influssi”. Aggiungerei anche alcune allusioni a realtà idilliache e utopiche descritte nei racconti orientali e mediorientali, come la celebre Śambhala, i vari miti edenici e sulle età dell’oro di varie civiltà, senza dimenticare un luogo che ha sempre esercitato grande influenza sul mio immaginario: il continente perduto di Atlantide, di cui adorai la descrizione platonica. La Contea tolkieniana può condividere con la mia Lothriel forse l’atmosfera serena e “fuori dal mondo”, ma la prima è molto più rustica e semplice rispetto alla seconda, la quale è invece più monumentale, elegante e sofisticata.

 

Il primo volume, Le memorie di Helewen, si apre con una scena, l’arrivo della zattera dei genitori di Nhalfordon-Domenir alla dimora di Helewen, dove affidano loro figlio alle cure del tutore, un Pirin, che lo istruirà in merito alla storia (e alle storie) del mondo, della sua stirpe e di sé medesimo, narrazioni che costituiscono il resto del libro, con poche interruzioni. L’impressione che se ne ricava è di un impianto accuratamente studiato per introdurre il lettore gradualmente nel tuo mondo. Hai avuto qualche ispirazione nel disegnare questa struttura espositiva? Un lettore tolkieniano non può che pensare ai Racconti ritrovati

In realtà credo che in questo senso la maggiore fonte d’ispirazione sia stata la Shahrazād delle “Mille e una notte”. Ma anche il ciclo arturiano, in particolare nei romanzi cortesi di Chrétien de Troyes. Senza dimenticare altri celebri cicli di racconti (qualche traccia appena accennata di Decamerone, tanto per dirne una…). Non tralasciamo la grande influenza dei cosiddetti “testi sacri”. Da quelli indiani fino alla Bibbia, passando dall’epica omerica.

In generale, come giustamente evidenzi, il primo volume vuole introdurre al “mondo narrativo” in modo graduale, evidenziando il background attraverso l’espediente di racconti inanellati ma di epoche diverse. Lo stile narrativo e la psicologia dei personaggi, nel primo volume, sono volutamente vicini all’astratto, al fiabesco, all’archetipico, con personaggi semplici, in grado di rappresentare un determinato valore etico e umano. Con il procedere della narrazione, nel secondo e terzo volume, gli eventi si fanno ravvicinati, proprio come i personaggi, che acquistano via via una psicologia sempre più stratificata, poliedrica, sfuggente, difficile da inquadrare nell’ottica di stereotipi caratteriali. I sentimenti iniziano a scendere dal loro “piedistallo” di archetipi e si fanno squisitamente umani, sofferti, talvolta incomprensibili. Viene progressivamente mostrato il male che si cela nel bene e il bene che si cela nel male, la luce nell’ombra e l’ombra nella luce, un po’ come nel simbolo del Tao.

 

Come Tolkien, anche tu ti ispiri chiaramente alle tradizioni popolari e folcloriche raccolte nelle fiabe e nei racconti di mezzo mondo. Credi anche tu che, come sintetizza mirabilmente C.S. Lewis, grande amico di Tolkien, “un giorno sarai abbastanza grande da ritornare a leggere le fiabe”? O forse, come dice il comico Alessandro Bergonzoni, “dobbiamo smetterla di raccontare favole ai bambini per addormentarli. Iniziamo a raccontargli favole per svegliarli”?

Assolutamente sì. Sono anzi convinto che non solo i bambini, ma anche la gran parte degli adulti non sospetti minimamente l’immenso patrimonio di saggezza racchiuso da fiabe, favole e racconti considerati “per l’infanzia”. Libri come “La Storia Infinita”, “Il Mago di Oz”, “Pinocchio”, “Il Piccolo Principe”, passando dalle fiabe tradizionali raccolte dai Fratelli Grimm, La Fontaine ecc… sono solo alcuni esempi di opere dal contenuto filosofico altissimo, immenso, molto più di certi libri ritenuti “per adulti” ma che, al contrario, si soffermano talvolta su aspetti della vita molto più superficiali, transitori, futili, o che imbrigliano la saggezza in uno sterile linguaggio razionale, dimenticandosi di parlare realmente al cuore, all’anima.

I più grandi autori di fantasy del Novecento, come Tolkien o Lewis, Ende (il mio preferito) ma mi permetto di annoverare  anche qualche autore tra virgolette “minore”. come Gaiman con il suo Stardust, hanno saputo affidare alle loro opere “per ragazzi” uno spessore iniziatico che le avvicina ad alcuni dei più eccelsi componimenti del passato, come ad esempio il misticismo della poesia Sufi, i Veda, ecc…

Una profondità che personalmente non riconosco ad autori odierni di bestseller del fantasy “per adulti”, preoccupati soltanto di avvincere con trame politiche, violenza ed erotismo: ingredienti che li rendono soltanto commercialmente più appetibili ma che, dal mio punto di vista, non li renderanno immortali, perché privi di un vero Messaggio in grado di valicare i tempi e gli spazi.

 

Un altro grande elemento che ho riscontrato in comune con Tolkien è il ruolo centrale dell’amore, soprattutto coniugale e parentale, e quindi della donna, dei genitori e dei figli. Come in Tolkien, per ogni dio c’è una corrispondente dea, anzi addirittura, nel mondo di Pirin, ogni dio ha un aspetto maschile e un aspetto femminile, il cui nome si ricava aggiungendo ‘ah’ al nome del dio maschile (Aedaran→ Aedaranah), oppure mutando in ‘h’ la ‘r’ finale (Foladar→ Foladah). Come in Beren e Lúthien, spesso per i tuoi personaggi è l’amore per una donna eccezionale a motivare le loro imprese (penso soprattutto a Theoson, l’amante di Uhilyn, ma anche a Osondel, desideroso di prole, alla rivalità tra Filo Carminio e Filo Cobalto per la bella Budalidor, all’amore di Folsarèd per la ninfa-cerva…). Cosa puoi dirci a riguardo?

Hai colto quello che è sicuramente un risvolto fondamentale della mia opera. Con “Pirin” ho cercato di raccontare molte forme dell’amore e di come questo possa abbassare o innalzare l’individuo nel suo percorso di affinazione e maturazione. Anche qui vale quanto detto in precedenza riguardo all’evolversi narrativo della trilogia: nel primo volume troviamo amori molto fiabeschi, incondizionati, univoci,  assimilabili a quelli dei grandi drammi shakespeariani, dello stilnovismo o della poesia trobadorica. L’avanzamento della narrazione, il suo passaggio temporale dal “tempo del mito” al “tempo degli uomini”, complica decisamente le cose. “Hairam Regina” è dominato dalle grandi passioni, anche distruttive, un costante rimescolarsi emotivo, mentre “Le Gesta di Nhalbar” (il più mistico dei tre) conduce a nuove e più profonde riflessioni, abbracciando suggestioni iniziatiche che avvicinano i personaggi alla comprensione di più vasti misteri divini, e dunque a forme di amore che travalicano i destini e gli interessi individuali.

 

Avendo menzionato una chicca linguistica della tua opera, non posso che interrogarti anche sulla creazione dei linguaggi del tuo mondo. Quali sono i tuoi modelli linguistici? Tolkien prese essenzialmente a modello il gallese e il finlandese per le sue lingue elfiche, nel tuo caso sbaglio a dire che si sente anche un influsso mediorientale?

Non sbagli. Gli influssi sono molteplici ma è innegabile l’apporto da matrici linguistiche sanscrite, mesopotamiche, egizie, semitiche, greche, latine. Non mi sono fatto mancare neanche ispirazioni precolombiane e da altri ceppi linguistici più circoscritti, di varie parti del mondo. In qualche caso si trovano anche inversioni, o sottili giochi di parole (Helewen s’ispira alle parole inglesi Hel e Heaven, per alludere al fatto che in ogni uomo convivano inferni e paradisi) o citazioni derivate dalla cultura fantasy e fantascientifica più recente. Il nome del Dio supremo Inkahal, ad esempio, è ispirato all’Incal di Jodorowsky, mentre il nome del regno di Lothriel evoca sicuramente atmosfere più tolkieniane.

Ad ogni modo la formazione della lingua dei Pirin è stata uno degli aspetti più laboriosi, perché volevo che fosse strutturata in modo “credibile”, con un vocabolario e proprie regole grammaticali. Non un linguaggio “di facciata” utile soltanto per comporre qualche breve formula magica come se ne trovano diversi esempi nella letteratura coeva, bensì una lingua “funzionante” a tutti gli effetti. Tra l’altro nella colonna sonora del videogame “Eselmir e i cinque doni magici” si trova una canzone interamente scritta in lingua Pirin (il cui testo e la cui melodia sono tratti direttamente dal primo volume della trilogia di romanzi) che per l’occasione è stata intonata da due promettenti studenti di musica del Liceo Cantonale di Bellinzona. Questo ha rappresentato un’ulteriore sfida verso il realismo di questa lore, perché ha permesso alla lingua Pirin di staccarsi dalle pagine stampate e di raggiungere il banco di prova del livello fonetico. Un passaggio delicato poiché, per essere credibile, una lingua deve anche distinguersi per una particolare tonalità, cadenza, pronuncia, e risultare naturale.

 

Mi ricollego all’ultima domanda e alla precedente sulle fiabe per chiederti: viene spontaneo un dubbio leggendo la saga dei Pirin. Se, come dicevo prima, è chiaro che, provenga dalle Storie di Erodoto o dalle Mille e una notte, entrambe fonti anche di Tolkien, si respira, più ancora che in Tolkien stavolta, un’aria di folklore orientale di riscontro a tant’altro celtico e nordico, sbaglierei a dire che, lette nel modo più giusto, anche le storie dei Pirin si possono definire Favole Ermetiche, il titolo di un altro tuo libro molto apprezzato?

Decisamente. È una saga dalla fortissima componente ermetica ed esoterica, proprio perché in questo vasto corpus di trame e sotto-trame (quasi duemila pagine soltanto i romanzi, senza contare i derivati multimediali) ho cercato di condensare i frutti del mio percorso interiore. Non si tratta di libri che nascono a scopo di intrattenimento. Il loro intento maggiore è quello di lasciare qualcosa al lettore, che possa accompagnarlo nella vita di tutti giorni, verso la propria realizzazione personale, umana, la riscoperta e la coltivazione di quella “scintilla divina” che lo rende un miracolo unico e irripetibile. Questo non avviene soltanto in modo esplicito attraverso ciò che effettivamente i racconti spiegano: si può dire anzi che la componente narrativa sia la punta dell’iceberg. Si tratta di una saga estremamente simbolica: quasi tutti gli eventi e i personaggi, ma anche i luoghi o gli oggetti, possono essere riconducibili al vissuto interiore di ognuno, e ci sono dunque diversi possibili livelli di lettura.

Da qui l’esortazione dell’oracolo rivolta ai Pirin “Dovrete trovare l’oro per il vostro tempio molto più in profondità”.

 

Infine chiudiamo con una domanda tecnica. Hai speso chiaramente grande quantità di tempo ed energie per realizzare un mondo dettagliato e coerente, in altre parole hai fatto un gran bel lavoro di worldbuilding. Hai dovuto fare molte ricerche per riuscire in un mondo completo e coerente? Come rapporteresti il tempo, suppongo preliminare, dedicato al puro worldbuilding, rispetto al tempo di scrittura vera e propria dei romanzi? E, per concludere, se dovessimo decidere, in vena di grandi semplificazioni, di definire ogni mondo con un semplice aggettivo, Arda è ‘elfica’, Narnia è ‘allegorica’, il Potter-verse è ‘magico’, Westeros è ‘machiavellico’, il mondo dei Pirin è…?

Se dovessi quantificare in modo molto approssimativo, direi che il worldbuilding abbia rappresentato un buon 70% del lavoro e dunque del tempo. In fondo, una volta definita gran parte della lore, il grosso del lavoro di stesura ovvero della parte spiccatamente narrativa è durato relativamente poco. Basti pensare che tra la pubblicazione del secondo e del terzo volume (il più lungo dei tre) è passato più o meno un anno.

Volendo trovare un aggettivo per il mondo dei Pirin credo si possa proporre il termine “mistico”, nel senso più ampio e intimo di un sentimento del sacro non inquadrabile in un contesto religioso e dogmatico, in una corrente o ideologia.

 

Di nuovo, a nome mio personale di Giovanni Carmine Costabile, del supervisore delle interviste Gianluca Comastri, del gruppo Tolkien nelle Marche – I Cavalieri del Mark, e di tutta la Società Tolkieniana Italiana, grazie di cuore!

Un sentito ringraziamento anche a voi tutti per l’interesse dimostrato nei confronti del mio lavoro, e a te Giovanni, in particolare, per questa bella intervista da cui traspare tutta l’attenzione e sensibilità del tuo approccio ai libri che affronti, e l’invidiabile cultura che ti permette di cogliere preziose connessioni ipertestuali che ad altri magari sfuggono.

 

L’intervistatore

Giovanni Carmine Costabile (Dott. Mag., 1987-) Libero ricercatore, scrittore, traduttore, pubblica articoli su Tolkien e la letteratura medievale su riviste prestigiose come Tolkien Studies (2017), Inklings Jahrbuch (2017), Mythlore (2018). Relatore di conferenze in Italia e Inghilterra dal 2016, già membro attivo della Tolkien Society inglese, Società Tolkieniana Italiana, Medieval Academy of America. Nel 2018 conduce ricerche su Tolkien e Gawain presso la Weston Library di Oxford e di seguito pubblica la sua prima monografia, Oltre le Mura del Mondo : Immanenza e Trascendenza nell’opera di JRR Tolkien, con prefazione di padre Guglielmo Spirito, introduzione di Oronzo Cilli e postfazione di padre Alberto Quagliaroli, volume che riscuote il plauso generale della critica in Italia e all’estero.